21/10/13

Il primo ballo

 

 

IL PRIMO BALLO

 
 
 
Matilde, sua nipote, le aveva chiesto molte volte di raccontarle come avesse fatto la figlia di un povero mezzadro, quale era stata Carolina in gioventù, a conquistare un marchese e a sposarlo; ma lei aveva sempre evitato l'argomento, sicura che la storia rocambolesca di come gli avesse salvato la vita non fosse adatta alle giovani orecchie della nipote. Tanto più che c’era chi in passato l’aveva giudicata scandalosa e additata come un’ arrampicatrice sociale! Non poteva credere fossero già passati più di quarant'anni da quel fatidico primo incontro. Come volava via il tempo e quanto le mancava suo marito Alberto...
Tornò con la mente all’estate del 1772 e le immagini e i suoni del passato la travolsero…
«Carolina, devi aiutarmi a convincere nostro padre a lasciarci andare alla festa, stasera. Il patrono si celebra una sola volta l’anno e, se stanotte non ballerò con il mio Giuseppe, non mi chiederà mai di sposarlo e resterò tutta la vita sulle spalle della famiglia!» sbottò Leda, aggrottando le sopracciglia e assestando un calcio molto poco signorile a un ciuffo di gramigna.
Carolina sorrise davanti alle paturnie della sorella. Nonostante avesse diciotto anni, solo un anno più di lei, Leda si atteggiava come una donna di mondo ed era talmente attratta dai giovani del villaggio da aver perso ogni ragionevolezza. Era una ragazza dolce e piena di vita, ma negli ultimi mesi era diventata talmente leggera, che loro padre si era visto costretto a porre un freno alla sua esuberanza. Sperava ardentemente di non fare la stessa fine della sorella, una volta raggiunta la sua età. Non voleva trasformarsi in ragazza fatua e perennemente innamorata. Era molto diversa da Leda, più pratica e meno incline a perdere la testa per un nonnulla, e intendeva rimanere così.
«Oh, eccolo là! Non è bello? Toglie il fiato…» esclamò Leda in un sussurro estatico, agitando la mano in direzione di un campo. Chino sul raccolto di grano vi era l’oggetto del suo desiderio: Giuseppe il giovane più attraente del contado, con tanto di muscoli guizzanti bruniti dal sole rovente di inizio estate. Sua sorella corse verso di lui e non si voltò indietro nemmeno quando Carolina iniziò a urlare. «Leda torna qui! Non puoi lasciarmi sola con il carico!»
Tirò inutilmente le redini del mulo sovraccarico di ceste di vimini. La bestia ostinata si rifiutava di muoversi e sua sorella invece di aiutarla era partita come una scheggia e si era ormai dileguata nei campi. Come al solito, non poteva contare che su se stessa. Fissò negli occhi l'anziano animale e disse: «Quando ti conduce mio padre non osi ribellarti per paura dello scudiscio, giuro che la prossima volta porterò con me uno spillone e allora vedremo chi l'avrà vinta!». Con un sospiro, sollevò dalla groppa un fascio di rami di gelso che aveva raccolto al confine nord del podere, e se li caricò in spalla incamminandosi verso casa.
«Traditore anche tu…» mormorò Carolina, seguita a passo lento da mulo che, dopo aver condiviso con lei parte del carico, era tornato a essere docile e ubbidiente.
Era in ritardo e sua madre a quell’ora si aspettava avesse già nutrito i bachi da seta ma, prima di raggiungere il loro podere, doveva per forza passare per corte Sganzerla, dove l’anziana moglie del fattore attendeva la propria scorta di gelso. Era terrorizzata da quel luogo e odiava le oche che quella famiglia allevava per uova e carne, erano feroci come lupi e ostili verso chiunque si avventurasse sul viale di ghiaia bianca dell’ingresso.
Non appena fu visibile dall'aia della casa padronale ebbe iniziò il loro starnazzare e poi le vide: in gruppo, con i lunghi colli protesi e i becchi schioccanti, si lanciarono contro di lei, decise a proteggere il loro territorio.
«Via! Via!» gridò, ma urlare non serviva ad allontanarle, e non essendo alta come sua sorella non riusciva neppure a evitare i loro becchi. Corse più veloce che poté, ma portando il pesante fardello non poteva distanziarle. Fortunatamente la signora Anna si materializzò, curva e avvolta nello scialle, sulla porta della corte e, con la sua voce stridula richiamò le oche e gettò loro del mangime. Quei diavoli dalle piume bianche interruppero l’inseguimento per gettarsi sul cibo e Carolina tirò un sospiro di sollievo. Consegnò i rami di gelso, ricevendo in cambi due soldi, quindi ripartì verso casa, lanciando occhiate sprezzanti all’ammutolito gruppo di volatili.
Fu per puro caso che, costeggiando un giovane pioppeto, vide spuntare da un cespuglio di more selvatiche dei piedi scalzi, piedi straordinariamente lisci e slanciati, appartenenti a un uomo, sicuramente, ma di certo non a un contadino. Incuriosita si avvicinò e li toccò con la punta delle scarpe, ma l'uomo non si mosse. Se stava dormendo aveva un sonno davvero pesante, pensò, e poi chi mai si sarebbe fermato a riposare sotto un arbusto carico di spine? Decisa a venire a capo di quel mistero si inginocchiò a terra e lo tirò per le caviglie, ma pesava come un masso e non riuscì che a spostarlo fino rendere visibili le sue ginocchia. Caparbia, insistette e puntando i piedi tirò con tutta la propria forza ancora una volta, finì a terra, ma almeno trascinò lo sconosciuto fuori dal cespuglio. Con orrore vide che qualcuno gli aveva sparato al braccio e doveva anche avergli rubato gli abiti, poiché aveva indosso solo dei calzoni di stoffa pregiata. Forse era un borghese di città incappato in una banda di ladroni o di contadini affamati. Con un sospiro si rese conto che toccava a lei salvarlo. Era la sola cosa di buon senso che potesse fare e, dopotutto, sua madre non avrebbe di certo potuto punirla per il ritardo se le avesse detto di aver agito per carità cristiana. Si strappò un lembo della sottogonna e cercò di ripulirgli il petto ampio dal sangue, per poter esaminare meglio la ferita e scongiurare ve ne fossero altre. Il proiettile gli aveva trapassato il braccio da parte a parte, appena sotto la spalla, sembrava un foro pulito e netto. Con tutta probabilità sarebbe sopravvissuto. Ricordando come l’avevano curata quella volta che si era ferita la gamba con il falcetto, masticò alcune foglie di gelso fino a ridurle in una poltiglia e le utilizzò per chiudere la ferita, poi si tolse la sottogonna e ne fece delle lunghe strisce con cui bendò il braccio dell’uomo.
«Non hai voluto trasportare le fascine? E ora dovrai sopportare un peso ben maggiore» commentò ironica, rivolgendosi al mulo. Mettere il ferito, molto più alto di lei, sulla groppa dell’animale fu una faticaccia, ma Carolina era forte e tenace, temprata dalla vita semplice che aveva sempre condotto e se si metteva in testa di fare una cosa, vi riusciva sempre in qualche modo. Fortunatamente l’animale stavolta non si ribellò e si mise in cammino. Intendeva portare l’uomo fino al capanno dei bachi da seta, nel podere di suo padre, dove avrebbe potuto curarlo a dovere, ma lo sconosciuto rovinò i suoi piani, riprendendo conoscenza e iniziando a lamentarsi.
«Accidenti a me! Mi sembra di stare in piedi sul ponte di una nave in balia delle onde, tanto il mondo dondola davanti ai miei occhi! E il braccio mi fa un male del diavolo…» mormorò il ferito stringendo i denti per il dolore, poi si mosse, cercò di tastare il braccio, ma si trovava riverso sulla schiena del mulo, così cadde a terra, rimanendo senza fiato.
Carolina si chinò su di lui e si trovò puntati addosso due occhi azzurri come il cielo d’estate che la fissavano con aria sognante e confusa. «Ho la vista annebbiata e non mi sento molto bene, ma vi vedo, sapete? Siete forse una visione? Giovane e bella e giunta fin qui per trarmi in salvo? Se è un sogno non voglio svegliarmi, nonostante il dolore. Il vostro viso è delizioso, anche ora che ha assunto una smorfia di disappunto: con le gote arrossate dal sole, due profondi occhi neri, capaci di stregare un uomo, e capelli corvini talmente scuri da avere riflessi blu, degni del piumaggio di un pavone. Sareste la fanciulla più corteggiata di tutta Mantova se vi deste una ripulita, parola mia …»
«La parlantina non vi manca, direi che è un buon segno, sopravvivrete» sentenziò lei, rendendosi conto che non aveva davanti un borghese, bensì un nobile. Il modo in cui parlava non lasciava dubbi. Quasi sicuramente si trattava di un rampollo annoiato in cerca di svaghi pericolosi nel contado, che aveva trovato pane per i suoi denti.
«Le bellezze come la vostra erano guardate con sospetto nel medioevo, sapete? All’epoca le incantatrici venivano mandate al rogo» le disse lui, piccato dalla sua indifferenza ai complimenti che le aveva fatto e per tutta risposta lei scoppiò a ridere.
«Fra poco direte di essere stato stregato da me e tenterete di baciarmi?» gli chiese, fissandolo con tutta la freddezza che riuscì a racimolare. La realtà era che quell’uomo la incuriosiva, si fermò a osservare i folti capelli neri, straordinariamente lucidi, e gli occhi turchesi. La destabilizzava soprattutto l’espressione accigliata che lui assumeva aggrottando la fronte, con le rughe sottili che gli si formavano a lato degli occhi e gli facevano brillare lo sguardo. Se poi a essa si univa il sorriso malandrino, che incurvava le labbra sensuali… Deglutì e tornò a fissarlo con biasimo. «Agitandovi e farneticando avete rovinato il mio duro lavoro: pensate sia stato semplice issarvi sul mulo? La ferita ha ricominciato a sanguinare e io non ho più stoffa per fare nuove bende. Forza, alzatevi in piedi, vi condurrò in un luogo sicuro. Non vi ho salvato la vita per lasciarvi morire dissanguato sul selciato. La vostra ferita non è poi così grave, ho visto di molto peggio. Quando mio zio è stato incornato dal toro, gli sono persino fuoriuscite le interiora, eppure non ha emesso un solo lamento, mentre il cerusico lo ricuciva!»
Lui si rimise in piedi con fatica, oscillò, ma i muscoli giovani e guizzanti lo sorressero.
«Oh, Oh, attraente e agguerrita e dire che non sapete nemmeno il mio nome!» scherzò, muovendo passi incerti verso il mulo. «Forse, dopo che l’avrete saputo sarete meno scontrosa…»
Le sue parole furono interrotte da delle grida concitate che si avvicinavano.
«Quel figlio di un cane non è morto! Il corpo è sparito! Ah, ma se lo piglio, lo scanno, giuro! Non può essere andato lontano, sono certo di averlo preso con lo schioppo. Tommaso, Evandro, andate di là, io vado da questa parte, non ci sfuggirà quel maledetto!»
Carolina alzò gli occhi al cielo. Non era proprio la sua giornata fortunata. Tentava di fare una buona azione, ed ecco che l’uomo che soccorreva si rivelava ricercato dalle guardie del villaggio. «Per favore, ditemi che non cercano voi…»
Prima che potesse aggiungere altro la grande mano dell’uomo le si serrò sulla bocca costringendola a voltarsi. «Nascondetemi e sarete ricompensata. Denunciatemi, e giuro che, se sopravvivrò, vi rovinerò la vita, mentre se morirò il mio fantasma vi perseguiterà!» La sua stretta sul viso di Carolina divenne ancora più salda. «Sono un uomo potente e non sto scherzando» ringhiò.
Le fece segno di rimanere in silenzio e con cautela la liberò. Il cuore le batteva così prepotente nel petto da sovrastare ogni altro rumore, ma era decisa a non mostrare a quel bruto alcuna debolezza. «Stendetevi a terra dietro quelle canne palustri. Sbrigatevi.» Lei stessa, dopo aver affibbiato una schiaffo al posteriore del mulo, che scappò ragliando, si accucciò a terra e aspettò che gli inseguitori passassero loro accanto e li superassero
«Ora seguitemi e non fiatate. Potete fare il prepotente quanto volete, ma dipendete dal mio buon cuore perché, se dovessi decidere di lasciarvi a quegli sgherri, foste anche il principe d’Inghilterra, quei bruti vi ucciderebbero. Non sembrano per nulla intimoriti dal vostro titolo! In fondo gli basterà additare la vostra dipartita come un incidente di caccia. Perciò non minacciatemi mai più» sibilò lei, rimanendo un istante incatenata allo sguardo ceruleo e pungente di lui. Non appariva più minaccioso, sul suo volto c’era di nuovo quel mezzo sorriso sfrontato.
«Abbiamo un accordo» mormorò lui con voce roca.
A gattoni Carolina tornò sui propri passi, ma aveva sottovalutato l’uomo di fiducia del fattore che, scorto il mulo solo nel campo, si era appostato lì ad aspettarli con la falce in pugno.
«Eccoti, figlio di buona donna! E ancora in compagnia femminile! Ah! Ma hai finito di fare la bella vita!»
Prima che si potesse avventare contro di loro, Carolina balzò in piedi e iniziò a correre verso di lui, fingendo di essere disperata, quando gli fu vicina lui aprì le braccia protettivo così, sfruttando la velocità che aveva preso, riuscì a spingerlo nel fosso alle sue spalle.
«Ben fatto!» ammise lo sconosciuto, afferrandola per un braccio e trascinandola con sé.
«Avete idea di dove state andando, almeno?» si ribellò Carolina, divincolandosi e puntando i piedi. Avevano corso a perdifiato nel contado, ma non potevano essere certi di aver seminato i loro inseguitori.
«No, a dire il vero» rispose lui, lasciandole il polso e chinandosi per riprendere fiato. «Mentre cerco di recuperare il respiro, perché non mi dite il vostro nome? Mi sento debole e mi tremano le gambe... Potrei morire e vorrei almeno sapere il nome dell’ultima donna che ho conosciuto…» le lanciò un sorriso affascinante.
«Avete l’aria di essere robusto, al massimo perderete i sensi, ma non morirete per una ferita alla spalla. Anche perché ho deciso di salvarvi la vita e io porto sempre a termine ogni cosa che inizio» replicò lei.
«Siete indubbiamente sicura di voi» chiosò lui. «Ditemi, c'è qualcosa che temete al mondo?»
Carolina arrossì. «Ho il terrore delle oche» ammise.
Lo sconosciuto la guardò stupito, ma non poté commentare la sua confessione, poiché il dolore e la stanchezza dovuta alla corsa, lo fecero crollare sulle ginocchia, mentre la grande schiena nuda e muscolosa era scossa da respiri brevi e superficiali.
Il rumore di uno sparo, a poca distanza da loro, li fece sobbalzare. Seguirono altri botti, e Carolina si ritrovò stesa a terra coperta dal corpo dello sconosciuto che cercava di farle scudo contro i proiettili.
«Dobbiamo scappare! Siete in grado di correre?» gli chiese in un sussurro.
«Credo di sì.»
L’aiutò ad alzarsi e insieme riprese a fuggire per i campi. Dopo poco Carolina vide che il ferito, ansante, rallentava l’andatura. Non potevano rimanere fermi, o rischiavano di venire catturati, ma era evidente che lui non poteva più continuare a correre. Dovevano nascondersi.
«Forza, vi chiedo solo un ultimo sforzo. Dobbiamo arrivare laggiù» disse indicando una costruzione in lontananza.
Vi era una piccola pieve diroccata davanti a loro. Era addossata alla parete di un fienile, a poca distanza da una serie di altri edifici, tra cui la casa del fattore più ricco del villaggio, di pianta rettangolare e alta ben due piani, era l’edificio più imponente della zona.
«Vorreste che ci nascondessimo proprio vicino alla casa del fattore che mi insegue? Siete pazza?» ansimò l'uomo sudando copiosamente.
«Ah! Quindi le guardie vi cercano per qualcosa che avete fatto al signor Golinelli. Di cosa si tratta? A giudicare dalla foggia dei vostri abiti, quei pochi che avete indosso almeno.... Non potete essere un ladro....»
«C’era una donna del borgo che mi piaceva e che mi aveva fatto capire di essere interessata a me e disponibile per un incontro privato. Ha però omesso di dirmi che era sposata… E suo marito mi ha fatto questo…»
«Non ditemi che vi ha sorpreso nel suo letto! Proprio come in una farsa della commedia dell'arte! In effetti, questo spiegherebbe perché siete quasi nudo» ammise, lasciandosi sfuggire una risatina.
«Sono lieto che la mia disavventura vi diverta, ma io qui sono ferito, oltre che ricercato, e morirò se non ci muoviamo da qui! »
Carolina guardò quegli occhi azzurri e tempestosi e si chiese cosa le dicesse il cervello? Quello era un uomo pericoloso, che non aveva esitato a minacciarla e che era rincorso dalle guardie del villaggio perché aveva deciso di divertirsi con una donna sposata! Perché mai si sentiva in dovere di salvarlo? Ricordò come avesse cercato di proteggerla poco prima, la sensazione del peso del corpo di lui sopra al proprio era ancora viva in lei e ,osservando quel volto così pallido, l’istinto di soccorrerlo ebbe la meglio sui dubbi. L'avrebbe tenuto in vita a qualsiasi costo. Doveva mantenerlo vigile fino a che fosse riuscita a farlo distendere sui banchi della chiesa quindi, sforzandosi di apparire perentoria, annunciò: «All'interno della pieve saremo al sicuro. Cercheranno ovunque, ma la vecchia chiesa del borgo è chiusa da anni perché il tetto sta crollando, gli sgherri non sanno che noi ragazzi abbiamo continuato a entrare, nonostante la porta sia sbarrata. C'è un passaggio che solo noi conosciamo. Seguitemi.»
Raggiunta la chiesa lo guidò attraverso un pertugio nascosto dai cespugli di robinia. Era molto stretto e lui fu costretto a stringere le spalle per poter passare.
«Fa un male del diavolo…» asserì a denti stretti, tenendosi il braccio ferito
«Quando avrete riposato, starete meglio e sarete pronto per tornare a casa vostra» minimizzò Carolina, conducendolo, mano nella mano, a uno dei banchi della chiesetta. «Stendetevi.»
Lui obbedì, lamentandosi: «E’ così scomodo... se potessi appoggiare la testa alle vostre gambe…»
«D’accordo» assentì, sistemandosi sulla panca.
Quando accolse il peso del suo capo in grembo, e incontrò quegli occhi azzurri nella penombra, sentì un vuoto allo stomaco. Non era mai stata così conscia della presenza di qualcuno. Il cuore perse un battito e improvvisamente capì perché lo stava aiutando. Un nodo d’ansia le fece voltare gli occhi e sfuggire il suo sguardo. Era attratta da lui! Lui le piaceva! Era così che si sentiva Leda? Sciocca e perduta, non più capace di agire con logica solo perché un uomo tanto bello da mozzarle il fiato le aveva rubato la ragione?
«Mi chiamo Carolina» gli disse per rompere il silenzio carico di tensione.
«Marchese Alberto Maria degli Ippoliti, per servirvi» asserì lui e quel sorriso sfrontato si fece ancora largo sul suo volto.
«Oh, mio Dio! Non mentivate, siete il proprietario di tutte queste terre!» gemette cercando di divincolarsi.
Lui le bloccò i fianchi con le mani forti e non poté far altro che rimanere a cullarlo con il seno a un palmo dai suoi occhi accesi di passione.
Delle voci concitate giunsero dall’aia. Gli inseguitori erano ancora sulle loro tracce.
Carolina si morse un labbro preda dell’indecisione. «Non credo tenteranno di entrare… ma è meglio nascondersi comunque. Alzatevi e seguitemi.»
Lui annuì e lei lo condusse, prendendolo per mano, verso l’abside. Il tetto della piccola pieve era mezzo diroccato e la luce del sole allo zenit trafiggeva con le sue lame cariche di pulviscolo la semioscurità della navata. Sotto a delle assi, che Carolina si sincerò di sistemare in modo che non sembrassero spostate di recente, si aprì una botola. Vi si infilarono entrambi, mentre le voci dei guardiani del podere si avvicinavano. Quando chiuse lo sportello facendo cadere sopra le assi, il fragore fu coperto dal frastuono dei colpi che, sulla porta della pieve, si abbattevano per infrangere i sigilli.
In silenzio, accovacciata in braccio a un uomo al quale, in una situazione normale, non avrebbe nemmeno potuto rivolgere la parola, si sentì viva come non mai. Poggiata contro quell’ampio petto, ascoltando il battere ritmico del suo cuore, si rilassò fino a chiudere gli occhi. Improvvisamente la mattinata a cogliere gelso, i dispetti di sua sorella, le schermaglie con il mulo e la prospettiva di ricevere dai genitori la più colossale lavata di capo della sua vita, le parvero preoccupazioni lontane. Lei era Carolina, la ragazza che aveva salvato la vita a un marchese, e stretta a lui, con il suo fiato caldo che sapeva di buono sulle labbra, non temeva nulla. Agì forse spinta dall’adrenalina, ma quando le labbra di lui si impossessarono della sua bocca, non la sfiorò nemmeno il pensiero di resistergli, anzi dovette trattenersi dal gemere. Poi fu la volta dell’assalto delle sue mani, che le esplorarono il corpo, decise, mentre la lingua di lui affondava e affondava nella sua bocca, togliendole ogni energia. Rispose, sebbene non sapesse nulla di amoreggiamenti, lo assecondò ed esplorò il suo corpo, per quanto la botola angusta e le persone che camminavano sopra di loro le consentissero. Il pericolo sopra le loro teste acuì i suoi sensi, la rese audace e le tolse ogni inibizione, ma quando gli uomini uscirono dalla pieve, la ragione le ripiombò addosso come fosse stata una coperta pesante giunta per coprire la sua vulnerabile nudità. Non era del tutto svestita, per fortuna, ma era così avvinghiata a lui che dovette puntare le mani sul suo petto per allontanarlo. Lui gemette.
«Fate piano, sono ferito» affermò con il riso nella voce carezzevole. «E grato di esserlo… Se questo è il vostro modo di curare gli infermi, mi farò sparare tutti i giorni!»
«Come osate!» si indignò lei fuggendo dalla botola e dalle sue braccia.
«Vi è piaciuto, e molto, essere baciata da me, non potete mentire.»
Poteva eccome! E poteva salvarsi da quella situazione assurda, quindi si rassettò l’abito sentendo con rabbia che i capezzoli le si erano talmente induriti da dolere sotto la stoffa del busto. L’unico modo per sfuggire a quella follia era porvi fine. Così disse: «Aspettate qui fino all’imbrunire, c’è la festa del patrono a corte Sganzerla, tutti i fattori e gli abitanti del contado saranno là, quindi sarete libero di fuggire.» E, agile come un coniglio di campagna, sparì facendosi strada fra i resti della pieve abbandonata.
La musica allegra della festa non riusciva a contagiarla, Carolina si sentiva frastornata e di pessimo umore. Per tutto ciò che lei e Leda avevano combinato, per non essere arrivate a casa con il carico di gelso, per aver abbandonato il mulo ed essersi volatilizzate per ore, avevano rischiato di non essere presenti, tanto i loro genitori si erano infuriati. Ma, alla fine, ogni cosa era andata al proprio posto: il mulo aveva vagato un po’, ma poi era tornato spontaneamente alla cascina, salvando così l’allevamento dei bachi da seta. Il comportamento delle due sorelle era stato giudicato inopportuno, ma la sola idea che Leda, la maggiore, non si sposasse a causa di una punizione esemplare aveva fatto cedere loro madre, che aveva acconsentito affinché si recassero alla festa. L’unica che aveva subito una punizione, alla fine, era stata lei, perché per nessuna ragione al mondo avrebbe voluto partecipare alla celebrazione del patrono! Non il giorno in cui il suo corpo aveva conosciuto una bruciante verità: si sarebbe innamorata anche lei, se fosse stato l’uomo giusto a corteggiarla. Questa scoperta aveva sconvolto la sua placida esistenza e avrebbe voluto rimanere sola a riflettere su ciò che le era capitato, invece di stare in mezzo alla folla. Non era in vena di festeggiamenti, e nemmeno il fatto che le guardie del villaggio, non l’avevano riconosciuta come la donna che aveva aiutato la loro preda a scappare, non era bastato per risollevarle il morale. Con i capelli acconciati e sollevati sopra il capo in un intricata treccia ornata di nastri multicolore e con indosso il vestito della festa, non era per nulla somigliante al diavolo scarmigliato che li aveva disturbati quel pomeriggio, appariva come una bella ragazza in abito di cotonina color malva con un’espressione malinconica sul volto che, al limitare dell’aia, osservava gli altri danzare. Si sentiva distaccata da tutto quel movimento di abiti sgargianti e dalla musica della piccola orchestra, come fosse ancora preda di un sogno svanito troppo presto. Sentiva in gola l’amaro gusto del rimpianto. Non avrebbe rivisto l’affascinate marchese degli Ippoliti, mai più. I loro mondi erano troppo distanti e incompatibili, come ghiaccio e fuoco.
Sorrise, scuotendo il capo. Le venivano in mente decine, centinaia, di diversi epiloghi alla sua avventura, tuttavia nessuno prevedeva che fosse sola in quel momento. Cercando di scacciare la malinconia con la praticità che la distingueva, afferrò un bicchiere di vino speziato e lo trangugiò d’un fiato facendo una smorfia disgustata.
«Dovete andarci molto più piano, mia bella, eroica, fanciulla, o non sarete sufficientemente lucida per ballare.»
La voce le giunse alle spalle e lei, che aveva chiuso gli occhi, li spalancò e tossì l’ultimo sorso di vino. Una grande mano calda le si posò sulla schiena e la fece voltare.
Occhi turchesi e un sorriso malandrino la trafissero e le fecero tremare le gambe.
«Non potevo lasciarmi sfuggire una ragazza del vostro stampo. Non ho mai conosciuto nessuno come voi. Perciò, nonostante rischi di venire preso a botte, se non peggio, sono venuto fin qui per guidarvi nelle danze... Stando attento a voltare sempre le spalle alla folla. La prudenza non è mai troppa e non voglio incidenti, non stasera, poiché questa serata promette di essere la più piacevole di tutta la mia vita.» Le posò un lieve bacio sul dorso della mano, scaldandola come se si trovasse di fronte a un fuoco ardente. Quello era il primo ballo della sua vita e, per ironia della sorte, malgrado lei fosse una giovane con la testa sulle spalle, avrebbe avuto un principe come cavaliere.

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